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Il farsi luce di Gianfranco De Palos
Dai grovigli del reale, Gianfranco De Palos scova l’invisibile e lo traduce nel proprio immaginario simmetrico. In arte, il gioco delle trasparenze è sempre efficace, e il suo, nel tempo, è riuscito a dispiegarsi in forme preziose, sottili, mai effusivamente gravi o barocche.
Nella medesima essenza, egli svolge l’attività di scultore, non proprio complessa o misteriosa, indubbiamente perfettibile, rarefatta, prodotta e riprodotta come momento magico della sua consapevolezza armoniosa e assoluta. In essa gli esiti sono distinguibile senso dell’ascesi e quindi un modo (e un modello) esistenziale, per farsi luce, misurando in percorsi interferenti tutti i possibili spazi in cerca di un significato e, intanto, o soprattutto, i più geometrici e lineari, in superfici peraltro colorate, riservate alla godibilità del lettore di opere d’arte e di codici inerenti al continuum che diventa la sua massima esigenza visuale. E intanto tenta di scardinarlo sia da paradigmi romantici (il color dipinto sul metallo o sul legno potrebbe essere una duttile ipotesi), sia che i maestri stabili alla medesima visione dell’essenziale, da Kandinsky a Vasarely, da Tatlin al Bauhaus, possano pubblicizzare i distesi (ed ulteriori) effetti di segno e grafia di costruttiva.
Nel mare magnum delle stesse ricerche, De Palos sceglie gli aspetti meno espressi da coloro i quali abitano le radici di tali rapporti formali e concettuali. E ,dall’inconsumabilità di tali pretesti coglie ispessimenti lievi di superfici con oggetti allusivi della quotidianità, connessioni con i dettati ritmici che presiedono il regolare lavoro sulla forma e gli equilibri non sfuggenti, insieme all’astrattismo che il contrasto impone alla morfologia della materia usata. Il panorama a cui si è accostata la sua aspirazione alla “luce”, sceglie mimetiche perturbazioni per il conflitto personale, riattiva la liricità provocando stilemi rinnovati, organizzando operazioni di forma, progetti fisici distanti dal manierismo insito nelle propensioni a manifestare sulle superfici nuovi segni, impronte ondulatorie, retoriche citazioniste, sghembe soluzioni a cui applicare eventi, scritture esplicative, opposizioni fluorescenti, diagonali a stesura multipla, contrapposizioni evolutive che possano riformare il criterio storico degli ispiratori ufficiali, maestri dell’essenziale e degli angoli retti sia pur meno diretti o casuali alla loro dialettica alta.
Il caso di De Palos è meno instabile di tanti esempi attuali al progetto di scegliersi un momento programmatico nella loro messa in opera del percettibile. E, tutto sommato le sue superfici conservano entità luminose, costanti, circolari, unitarie, meno ansiose di quello che potrebbe apparire temendo l’estremo ritorno alla relazione retta, caratterizzata da aggiunte al contesto spaziale, fondamentale ad una peculiare struttura, senza bagliori gratuiti e tentativi di dinamizzare false apparenze. Nel rigore delle serene istanze, l’immagine circolare riavvia i casi dell’intreccio, ma in corpi paralleli e successivi, offerti in una raffinatezza multipla, a effetto speculare e diagonalizzato, inventando un iperspazio responsabile e, il fatto che sia dovuto alla mano di uno scultore, assimila una idea urbanistica di svolgimento ideale e di singolarità, tutt’altro che forzata e incomprensibile. Le luci “del Bauhaus” infatti è stata, qualche tempo fa, un’iniziativa editoriale curata dall’artista affiancata da poeti come Gramigna, Sanesi, Roversi, Schwarz, Spaziani, Brecciaroli e altri, che ha elaborato una memoria (ed una complicità) interamente destinata al “farsi luce”, e di quell’operazione privata del comporre proporzioni interattive attraverso una dimensione di limpidità ( su percezione del metallo) a cui De Palos conferma un razionale ed esplicito divenire sensibile e moderno, il cui oggetto si fa favola di rapida evocazione.
Domenico Cara
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